“L’amore per la vita sopra ogni cosa”
«Quando nasciamo, salpiamo da un porto sicuro e ci avventuriamo in un mare tormentato di gioie e dolori a bordo di una piccola barca con poca esperienza. A ogni approdo aumentiamo le nostre esperienze e dopo un periodo in un porto tranquillo riprendiamo il mare, pronti ad affrontare nuove gioie e nuovi dolori, perché ogni porto lasciato ci ha sicuramente reso più uomini, ma anche più… vulnerabili. Quindi, se è vero che la morte è un’isola in questo mare tormentato, un fatto è certo: tutti dovrebbero avere l’occasione di fare quest’ultimo viaggio a bordo di un vascello sicuro. Mio padre ha avuto questa occasione e ha trovato un vascello sicuro dal nome hospice e un equipaggio preparato e dolce; ha raggiunto in un soffio l’ultimo approdo sicuro, senza ansie né timori». La figlia di un malato inguaribile accolto dall’hospice Mons. Aurelio Marena di Bitonto, in provincia di Bari, testimonia quanto il tempo sia breve a causa di una malattia inguaribile e come le cure palliative abbiano rappresentato quell’amore per la vita sopra ogni cosa. Sopra la velleità di essere immortali, la presunzione di chi non vuole ammettere il limite della medicina davanti alla morte, sopra il dolore inutile che il male porta e che esige una risposta di sollievo, sopra tutte le domande di senso che ogni essere umano si pone di fronte ad una sofferenza che molte volte viene percepita come una forma di castigo per qualche colpa commessa. Il giorno 11 novembre di ogni anno, in Italia si celebra la Giornata per le cure palliative e gli hospice, nel giorno in cui la Chiesa fa memoria di san Martino di Tours che ha indicato come il protettore degli ammalati inguaribili. Un santo, un militare che cum-divide il suo pallium quando passa accanto ad un uomo povero; un indumento simile a un mantello che in tutta la sua forza simbolica avvolge, abbraccia e si prende cura della persona in tutte le sue dimensioni vitali.
Le cure palliative, come le definisce l’Organizzazione mondiale della sanità, corrispondono a una condotta e un trattamento volti al miglioramento della qualità di vita dei pazienti e delle loro famiglie, in presenza di una malattia incurabile. Esse leniscono dolori e altri disturbi opprimenti, sostengono il malato nel restare attivo il più a lungo possibile, affermano la vita senza accelerare né ritardare la morte e sono il frutto di una rete di assistenza presente negli hospice, costituita da medici, infermieri, psicologi, assistenti spirituali, operatori sociosanitari, fisioterapisti che curano la vita come prima responsabilità nell’incontro con la persona avvicinando il malato e la sua famiglia al più umano valore della morte. In proposito è stata significativa l’attività svolta dall’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Conferenza episcopale italiana che ha istituito il tavolo degli hospice cattolici e di ispirazione cristiana e, a settembre 2020, dopo un biennio di lavori, ha presentato il testo Una presenza per una speranza affidabile. Il documento, a valle dell’esperienza operativa degli hospice di tutta Italia, illustra le peculiarità di tali strutture come luoghi aperti ed attivi per fornire risposte alle esigenze cliniche che la persona malata presenta e al suo accompagnamento verso la fine della vita terrena. L’hospice è il luogo in cui il malato si apre alla speranza di prefigurarsi il fine vita come l’ultimo capolavoro della propria esistenza e come ricorda Papa Francesco alla Congregazione per la dottrina della fede all’udienza del 26 gennaio 2018, «il dolore, la sofferenza, il senso della vita e della morte sono realtà che la mentalità contemporanea fatica ad affrontare con uno sguardo pieno di speranza. Eppure, senza una speranza affidabile che lo aiuti ad affrontare anche il dolore e la morte, l’uomo non riesce a vivere bene e a conservare una prospettiva fiduciosa davanti al suo futuro. È questo uno dei servizi che la Chiesa è chiamata a rendere all’uomo contemporaneo».
E non solo la Chiesa, ma tutta la comunità civile è chiamata a tutelare la dignità del malato, la qualità della vita fino al suo termine e l’adeguatezza del sostegno sanitario e socio-assistenziale offerto; principi che la legge 38/2010 traduce con il riconoscimento del «diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore». Per quanto non abbia ottenuto una totale applicazione dopo dieci anni dalla sua entrata in vigore, la normativa assume una valenza innovativa anche nel panorama europeo per aver riconosciuto il valore di diritto al rifiuto della sofferenza inutile, superato i pregiudizi più comuni e informato i cittadini sulle modalità di accesso ai servizi alle tre reti di assistenza dedicate alle cure palliative, alla terapia del dolore e all’accompagnamento del paziente pediatrico. Occorrerebbe, quindi, prima ancora di promulgare nuove leggi che potrebbero confondere i cittadini, attuare in toto quelle già in vigore, come auspicato dal professor Italo Penco, presidente della Società italiana di cure palliative, al fine di proiettarsi nel futuro e pensare ad uno scenario di cure palliative 4.0, tese cioè verso l’innovazione, verso la progettazione, la nuova formazione e nuove relazioni umane. Questa è la scommessa alla quale siamo chiamati per non soccombere alla richiesta di eutanasia e di suicidio assistito, definita dal Santo Padre, all’udienza del 5 giugno 2019, «una sconfitta per tutti che si accompagna al non abbandonare mai chi soffre, al non arrendersi, ma al prendersi cura e amare per ridare la speranza». Appunto, l’amore per la vita sopra ogni cosa anche nell’epilogo della sua ultima melodia.
di Rossana Ruggiero
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